Emanuele Mengotti | Il sogno americano

Mentre mi trovavo nel deserto del Mojave, alle porte della Death Valley, immerso nel silenzio e nella polvere, mi ha scritto Irene Dorigotti, regista e amica. Era curiosa di sapere che aria si respira oggi negli Stati Uniti. Non quella delle grandi città, ma quell’altra, quella che pulsa nei margini, tra le crepe dell’America profonda. Come ormai sappiamo, gli Stati Uniti sono divisi in due: le coste e tutto quello che sta in mezzo. Io da mesi vivo nel mezzo. 

Sto lavorando al mio terzo documentario, l’ultimo capitolo di una trilogia che prova a raccontare, o almeno a sfiorare, l’idea sfuggente del sogno americano. Mi trovo in una piccola città dimenticata dal tempo, nel deserto della California. Qui non ci sono multinazionali, né fast food, né Walmart, né Dollar Stores. Nemmeno il segnale del telefono riesce a entrare. Solo una stazione di benzina e un liquor store vendono cibo in scatola, fagioli e carne secca.

Qui le notizie non arrivano. I dazi, il mercato, i prodotti europei che avranno dei prezzi aumentati, tutto resta fuori. Eppure qualcosa si muove. Nei sogni, nelle frustrazioni, nei desideri semplici. Richie, un ragazzo di origine messicana, osserva i suoi compagni giocare a baseball sul campo senza erba della scuola. Poi si volta, mi guarda e dice: “Se solo ci fosse un McDonald’s in città… Ci andrei tutti i giorni.”

Nòt Film Festival, 2024

Sono un regista, fotografo e scrittore. Regista dei due film documentari: West of Babylonia (disponibile su ZaLabView) e Red Sky at Night (Rosso di Sera, su RaiPlay).

Sono nato e cresciuto al Lido di Venezia, un luogo che per molti potrebbe non avere un grande significato, ma che per gli amanti del cinema ne ha uno speciale: la Mostra del Cinema. Da bambino, attendevo con trepidazione quel momento dell’anno in cui il cinema invadeva ogni angolo dell’isola. Ma era durante il resto dell’anno che il cinema esercitava su di me una fascinazione ancora più profonda: quando il Palazzo del Cinema restava vuoto e abbandonato tra le nebbie lagunari, come un fantasma che non se ne andava mai.

Sono cresciuto guardando gli Stati Uniti attraverso lo schermo cinematografico e tra le pagine dei romanzi. Da lì è nata la mia fascinazione per queste terre, un amore che si riflette anche nel mio modo di vestire. Mio padre era un grande appassionato del genere western, e conservo ancora un tomahawk — un’ascia da lancio tradizionale delle tribù native americane — che mi aveva costruito con le sue mani.

Appena compiuti 21 anni — la maggiore età negli Stati Uniti — ho comprato un biglietto di sola andata per la California, e un ritorno da New York. Senza un piano preciso. Ho attraversato gli Stati Uniti, superato più volte i confini con Messico e Canada, viaggiando in autostop, con macchine a noleggio, nel retro di furgoni hippie, su pick-up insieme ad anziani coltivatori del Midwest, e soprattutto sui mitici Greyhound buses. Ho dormito ovunque: nei bus durante le lunghe tratte, sul pavimento delle stazioni, in case di sconosciuti o piantando tende nei parchi naturali.

Sono arrivato a New York con 20 dollari in tasca. La prima notte l’ho passata su una panchina di Central Park. Avevo solo il numero fisso di una ragazza che mi aveva promesso un letto. Ogni volta che chiamavo e lei non rispondeva, il telefono pubblico si teneva un mio quarto di dollaro.

È stato lontano dalle città, attraversando l’America, che ho iniziato a capire. Viaggiavo per giorni, dormendo sui sedili rigidi dei Greyhound, con i neon delle stazioni di servizio che filtravano dai finestrini. Una notte, nel deserto del Texas occidentale, il bus si fermò per un guasto. Provai a chiamare quella ragazza. Trovai un telefono a gettoni, infilai le monete: dall’altro capo della linea, solo silenzio. Allora osservai davvero.

Ero solo, immerso in un paesaggio che sembrava uscito da un western moderno. Volti di messicani che fumavano lentamente sigarette sotto i loro cappelli. Donne sole con lo sguardo perso all’orizzonte. Giovani yankee con spighe di grano tra i denti. Inservienti che pulivano i vetri degli autobus, ricoperti dai corpi delle grandi locuste della notte. Neon e polvere ovunque.

Forse è stato lì che ho compreso, almeno per me, il senso profondo del western.
Non solo un genere cinematografico, ma un’atmosfera che parla di frontiere, solitudine e identità. È questo che mi ha spinto a esplorare anche il west europeo, quello che si distacca dal mito americano per diventare qualcosa di più sporco, più allucinato. La trilogia su cui sto lavorando segue proprio questa traccia.

Una volta tornato in Italia, sul mio computer comparve una pubblicità spam: TENTA LA FORTUNA — VINCI UNA GREEN CARD E VIVI NEGLI STATI UNITI.

Ci provai. La vinsi. Oggi sono cittadino di entrambi i Paesi.

Questo mantra mi accompagna da sempre, e guida i miei tre lavori che compongono questa Trilogia del West. Ed è per questo che oggi mi trovo a scrivere da una casa rimasta abbandonata per anni, in una delle zone più depresse d’America — dove nemmeno le grandi multinazionali hanno avuto il coraggio di restare. Ma la poesia è ovunque: negli occhi dei giovani che sognano, nella tenacia di chi sa resistere a ogni costo.

“In L.A. they make movies, in New York they sell them — in the middle, we live them.”

Così si dice. E così ho lasciato Los Angeles e sono andato alla sorgente.

Bisogna guidare per ore nel deserto, fino a quando la strada inizia a scendere all’interno di un canyon: il Poison Canyon. Lì, la radio perde la connessione, i telefoni non hanno più ricezione e ai bordi della strada appaiono croci che segnano le vite spezzate in quel tratto di strada, un percorso che per molti è stato fatale. Poi, in lontananza, appare Trona. Un paese di meno di 3000 abitanti, il luogo dove il sogno americano esiste ancora — perché è l’unica cosa che tiene in vita la speranza di chi vive ai confini della Valle della Morte, dove d’estate le temperature sfiorano i 50 gradi, dove nemmeno l’erba cresce e dove il tempo sembra essersi fermato.

Il tempo, appunto — sarà un elemento centrale del mio prossimo lavoro: “Trona”.
Perché in questa città tutto è immobile, congelato negli anni in cui l’America veniva considerata “great”. Quando gli ideali conservatori erano le fondamenta.
Un’America fondata su tre pilastri: la chiesa, la famiglia e la nazione.

Vivere qui è come vivere nel passato, un passato distopico, consumato dal vento e dall’aridità.

Ed è per questo che questo film, prodotto da Samarcanda di Leonardo Barrille e Francesco Favale, e da Harald House di Kristian Van Der Heyden, sarà girato in VHS.
Ho scelto di utilizzare il mezzo per antonomasia con il quale ci è stato mostrato per la prima volta il volto degli Stati Uniti: quello domestico e imperfetto dei ricordi familiari, delle vacanze sognate, dei paesaggi lontani registrati su nastro magnetico.

La VHS non è solo un formato, è un filtro emotivo: rende tutto più fragile, più intimo, più vero.
È l’occhio dello zio che filma dal sedile passeggero, la voce fuori campo della madre che chiama un figlio distratto, il rumore bianco di un mondo che sembrava immenso e accessibile.
Attraverso questo linguaggio visivo vogliamo riportare lo spettatore in quell’America sognata da dietro uno schermo a tubo catodico, deformata dalla lente dell’immaginario collettivo, consumata come un ricordo che si rivede troppe volte, ma che non si vuole lasciar andare.

Ho a lungo studiato il come e sono arrivato alla conclusione che c’era una sola via: cercare delle vecchie telecamere VHS, che vengono dal passato e che hanno già assaggiato quei momenti, riportarle in vita e filmare su vecchi nastri.
Niente post-produzione per ricreare quella sensazione: credo sia giusto fare affidamento sull’imperfezione di quei tempi per comprenderla davvero.

Per capire bisogna immergersi totalmente in questo mondo.
Lasciare la sicurezza alle spalle e vivere in prima persona le sfide di questo posto, le sue paure e le sue gioie.

È dal 2021 che frequento questo luogo. Ormai in paese mi conoscono.
Sarà perché un italiano non passa inosservato.
Sarà per quella vecchia, precaria Alfa Romeo spider che spesso mi lascia a piedi.
O sarà per la mia ingombrante telecamera con cui filmo ogni cosa.

Le persone di qui mi hanno accolto e mi trattano come uno di loro.
Insegno ai ragazzini della loro scuola, filmo i momenti più importanti delle loro vite — compleanni, partite di baseball, cerimonie.
Ma soprattutto, vivo con loro.

Al momento ho trovato sistemazione in una casa abbandonata da quattro anni. Quattro lunghi anni durante i quali era diventata rifugio per tossicodipendenti e piccoli spacciatori.
Da qualche mese, però, il figlio della proprietaria e la sua ragazza ne hanno ripreso possesso e la stanno riportando in vita. La stanno pulendo, sistemando pezzo dopo pezzo.
Molte finestre sono ancora rotte, la porta d’ingresso non si chiude del tutto, e il vento del deserto entra spesso senza chiedere permesso.

Ad abitarla sono due giovani americani.
Lui è il nipote di un bull rider rimasto paralizzato dopo un incidente durante un rodeo — la casa è ancora piena di cimeli, fotografie sbiadite, fibbie, cappelli.
Lei, minuta ma dallo sguardo deciso, è — mi hanno confidato i suoi amici — la nipote di Charles Manson.
Charles Manson per lunghi periodi ha vissuto a soli trenta chilometri da qui al Barker Ranch, con la sua gente. 

In questo strano incrocio di destini, memorie e fantasmi americani, sto cercando di costruire il mio film.

Non si capisce se il Sogno Americano, da queste parti, esista ancora o se sia sempre stato solo un’illusione. La gente qui ci crede. Lo porta tatuato sulla pelle, negli occhi, nei gesti quotidiani.

Ma se stessero solo sognando? Non saprei rispondere.
E probabilmente neanche il film saprà dare una risposta definitiva.
Non ci resta che sognare con loro.


Emanuele Mengotti è nato nel 1986 a Lido di Venezia. Dopo aver vinto la Green Card si è trasferito negli Stati Uniti e ha vissuto a Los Angeles, Las Vegas e nello stato dell’Oregon. Nel 2017, dopo aver vissuto per diversi anni negli Stati Uniti, diventa ufficialmente un cittadino americano. Ha lavorato come line producer in Hallucinaut, prodotto da Terry Gilliam e ha prodotto il documentario Poveglia – Oltre il mito. Nel 2018 ha lavorato come ricercatore per il documentario Friedkin uncut in selezione ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma. Nel 2019 ha diretto West of Babylonia, documentario creativo che è parte di una trilogia dedicata all’Ovest americano, presentato in anteprima mondiale a Biografilm Festival nel 2020 e parte della video library di Vision du Réel. Rosso di sera è il secondo capitolo della trilogia, presentato ufficialmente al Biografilm 2022 e parte della delegazione italiana a IDFA.

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