Idina Cortesi | Tribù infrarossi

I miei amici vanno fuori di testa uno dopo l’altro e io sono dentro l’onda che non si può fermare. Mi chiedo il perché, ma non c’è. Perché non c’è mai un perché?
È tutto un nulla condito di niente, quindi tanto vale inventarsi qualcosa. Una via d’uscita. Signore e signori, siamo nati in mezzo agli psicotici, cresciuti dai senzapalle, guidati dagli stronzi, e ora non meravigliatevi se vi mandiamo affanculo e spacchiamo il muro di casa per impossessarci di quella dei vicini quando non ci sono.
I miei hanno una casa al mare e io ci ho invitato tutti i miei amici ma a un certo punto non ci stavamo più. Questi cazzo di vicini non ci sono mai e il muro che divide camera mia dal loro bagno è sottilissimo, questo ci ha decisamente facilitato le operazioni, cosa che ci ha assolutamente convinti del fatto di avere ragione. Spaccare quel muro era un diritto. Siamo punk. Sappiamo usare un Black & Decker perché non ci chiediamo come funziona, e il non aver seguito un corso professionale per muratori o elettricisti non ci spaventa. Ovviamente c’è chi lo sa usare meglio di altri e quello è Lo Squalo.

Lo Squalo vive da sempre in un posto striminzito dove sono tutti suoi parenti. Non c’è nessuno che abbia la sua età. Per venire da me ha preso una corriera troppo poco di classe. Ha detto proprio così.

È sceso dalla corriera con la camicia bianca sudata e i ray-ban a incoronargli la crapa pelata e ha detto così: sorellì, ‘sta corriera era troppo poco di classe. Poi ci siamo trascinati la valigia su per il sentiero e quando siamo arrivati abbiamo scolato due Campari guardando il tramonto. Lui si ricordava che ho lavorato per un’agenzia di superalcolici, facevo dei copy cretini per i social media, a quel punto mi ha tirato uno schiaffone urlando #stradasterrata, #camparino, #sunset e ci è venuto da ridere fino alle lacrime, ho sentito il naso colare e la bocca salata, e quando mi ha chiesto se quella era violenza sulle donne ho risposto che non mi sembrava ma non ne ero neanche troppo sicura.
Siamo rimasti una settimana da soli e non ne potevo più. Gli voglio un gran bene, ma quando ci si mette è uno spaccacazzo stellato. Si è inventato questa storia che è bipolare o roba del genere, la usa come scusa per sfogarsi e per qualsiasi cosa voglia o non voglia fare. Secondo me non è vero ma non sono una grande esperta di malattie mentali. All’inizio dormiva nella camera dei miei, come qualsiasi Homo Habilis che si rispetti, poi l’ho costretto a stare in terrazza, che non ci si sta dal caldo ma almeno non mi sveglia con le sue paturnie da tossico. Lo sento dietro le persiane mentre sbraita fa Buio! Buio! A una certa, ordina al cielo di far venire giorno come fosse il suo maggiordomo.
Alla fine il sole sorge. Tutto ‘sto casino gli fa venire il cazzo duro e il cazzo duro gli fa venire una gran paura. Lo Squalo ha sempre paura. Passa tutta la giornata a dissimulare la su gran paura minacciando gente a destra e a manca senza nessun motivo.

Meno male che è arrivata Desiree e poi tutti gli altri. Non è che ci stiano dentro con la testa, ma almeno non dicono cazzate per far pena o per convincermi di qualcosa.

La prima festa è stata assurda. Abbiamo spalancato le porte che danno sul giardino verandato e acceso tutte le luci, dentro e fuori. Casa dei miei è esattamente al centro del grandissimo nulla e a vederla da lontano pare un Big Bang o anche un’oasi esclusiva per spocchiosissima gente di lusso. Quando mi accorgo del privilegio, mi viene da pensare grazie grazie grazie, perché sono in questo film e non in uno dove la gente si ammazza di lavoro. Dura poco; più o meno dalle 18.00 alle 21.00, poi inizia a esserci un gran casino e un viavai del demonio, chi entra e chi esce e chi si addormenta sul divano e chi versa birra sul pavimento, qualcuno venuto da chissà dove per accendere il barbecue, Franceschino capottato dentro la doccia, Rousseau che beve nei portacenere ed è di nuovo mattina.

Di giorno fa un gran caldo e tutti sono sempre troppo stanchi per parlare di qualcosa di sensato. Affrontiamo spesso la questione del ghiaccio: quanto ce n’è, dove possiamo reperirlo, chi si offre per andare. Io della questione del ghiaccio mi sono veramente rotta i coglioni. Ci guardiamo negli occhi per qualche secondo seduti in cerchio sui cuscini della veranda e vorremmo dire tutt’altro, poi viene fuori la questione del ghiaccio. Come una specie di sortilegio del cazzo che invece delle cose giuste ti fa parlare di stronzate che non interessano veramente a nessuno. Glenda dice: «Che bella vita facciamo noi, pensa a quelli che adesso stanno in città!» ma nessuno le risponde perché alla città ci pensiamo di continuo, ma ognuno per i fatti suoi.

E quindi a un certo punto i vicini si meritavano lo sfondamento. L’abbiamo deciso così, senza deciderlo, come spinti da una forza soprannaturale, giusta e vendicativa.

«Che coglionata, come si fa ad avere una casa del genere e non andarci mai!»
«Bro, chissà che roba ci tengono là dentro.»
«Secondo te quante camere ha? Magari c’è solo un’unica stanza grandissima.»
«Sorellì, dimmi una cosa, ce l’hai un Black & Decker?»
Ma soprattutto c’è stato il momento particolarmente significativo e chiarificatore. Ha a che fare con questo Jerry che è con noi da qualche settimana, ma nessuno lo conosce. Ne avevamo sentito parlare da amici di amici, diciamo che sappiamo più o meno tutti chi è, però nessuno di noi l’aveva mai visto prima e nemmeno ci aveva fatto serata o cose del genere.
Comunque, è arrivato qua per una specie di telefono senza fili. Era rimasto a piedi pe le vacanze estive e qualcuno che mi conosce gli ha detto di raggiungerci ma senza spiegargli esattamente dove. Un bel giorno mi chiamano dal Tabacchi in paese. Pronto. Sì. In che senso? Ok, vengo a prenderlo. Non ci ho messo molto a capire che era lui. Jerry non è tanto grasso ma è quello che noi potremmo definire un groasso, ovvero uno sia grosso che grasso che non si capisce dove finiscano i muscoli e inizi la ciccia. Ha il grave problema di mangiare sempre tutto quello che c’è sulla tavola, non può mai rimanere niente, neanche un minimo di avanzo e nemmeno gli scarti nei piatti degli altri. Quando ormai abbiamo finito di pranzare ed è rimasto del pane, dell’insalata o qualche boccone di pasta nella pentola o qualsiasi altra cosa, possiamo vederlo soffrire e sudare freddo e chiedere ad alta voce in modo molto agitato se abbiamo intenzione di mangiare quel cibo oppure no. Un secondo dopo è sparito tutto. Il tema, però, è che questo Jerry è un habitué dei ritiri spirituali in cui a un certo punto la gente beve una brodaglia psichedelica e vomita. Lui non beve mai niente, è solo incaricato a controllare che nessuno si faccia male.

E Jerry si è messo a dire che in casa mia ci sono i fantasmi. Dice che l’ha capito subito. Dice che c’è un’energia molto speciale. Dice che riesce a percepire certe frequenze tipiche dello spettro elettromagnetico inferiore ma non è mai riuscito a fornirci delle prove, almeno fino a quel momento.

Succede che andiamo a fare la spesa allo Smart, il supermercato più costoso che conosca ma anche l’unico nel raggio di chilometri. Carichiamo nel bagagliaio varie casse di birra calda e quando arriviamo a casa, tramite uno studiatissimo tetris, riusciamo a incastrarne circa una decina nel freezer. In tutto ciò si sono fatte le 17.00. Alle 17.30 Franceschino inizia a lamentarsi che vuole una birra. Metto una mano nel freezer: sembrano sufficientemente fresche. Ne prendiamo una a testa e ci sediamo in veranda per dare inizio alla serata. Stappo la prima e non ho neanche il tempo di attaccarmi alla bottiglia che quella inizia a sobbollire. Dal fondo salgono centinaia di micro-bollicine velocissime che ruotano e frizzano e congelano irrimediabilmente il collo della mia Heineken creando un tappo ghiacciato impossibile da evitare. Poi, come le tessere del domino, succede anche a tutte le altre. Stappa e si ghiaccia, stappa e si ghiaccia, stappa e si ghiaccia. Jerry dice solo: «Io, ragazzi, vi avevo avvertito».
A questo punto non c’è granché da discutere: è una situazione bella strana. E non so come sia successo, ma ci mettiamo in testa che il tutto deve c’entrare per forza con l’appartamento di fianco. Là dentro è senza dubbio accaduto qualcosa, un fatto terribile, è anche possibile ci sia qualche cadavere in decomposizione o magari stipato nell’intercapedine tra camera mia e casa loro. Nei giorni successivi facciamo varie ricerche e rilievi. Cerchiamo le prove. Tutti molto attenti ai rumori, agli oggetti, alle sensazioni, e non è facile per niente, perché siamo più di dieci ma meno di venti.
Di prove, alla fine, non ne troviamo. Gli indizi, però, sono innumerevoli. Tutta una serie di fatti ambigui che ognuno di noi interpreta a modo suo e che accrescono la tensione. Per esempio, l’accadimento del telefono. Filo il piccolo schiaccia il suo Samsung sulla parete che divide camera mia da casa dei vicini, mettendolo in modalità registrazione e poi lo ricopre di scotch. Il mattino dopo il telefono è a terra, spento, senza un graffio, e non si riaccende più. Oppure la questione di Vera. Vera ha un sacco di fratelli da madri diverse che non sente mai. Un giovedì si è messa a cercare qualche traccia nel giardino dei vicini e toh, riceve una chiamata: è suo fratello dal Ruanda che le dice che loro padre parteciperà a un talent show per musicisti rock over 50. Poi più niente, cade la linea e non richiamano. Infine, c’è la fase dei sogni. Tutti riuniti per la colazione, qualcuno seduto sul prato e qualcuno in veranda, tazze di caffellatte, tovaglia macchiata e portaceneri pieni, prendiamo ad analizzare la nostra nottata in ogni minimo particolare, concentratissimi nel cogliere un qualsiasi elemento, credendo profondamente nel dettaglio apparentemente insignificante ma denso di significato, aspirando, con ogni centimetro di noi stessi, a scovare quell’invisibile crepa nella realtà che una volta sanata avrebbe sistemato ogni cosa per sempre.

Nessuno pensava più alla città. Nessuno si ricordava da quanto tempo ci trovavamo lì. Era davvero arrivato il momento di spaccare quel cazzo di muro. Dieci Black & Decker pneumatici, tre martelli scalpellatori, occhiali da sole, guanti da cucina. Alcuni con gli AirPods o le Beats, altri senza una misera ceppa di niente. Lo Squalo al centro. Passiamo un giorno intero completamente avvolti nella polvere, col sole che si insinua tra le persiane e ogni tanto trafigge qualcuno. Quando la luce colpisce Lo Squalo ridono tutti perché lui si lamenta e si contorce come un indemoniato ma ha l’aspetto di un santo. È proprio uno spettacolo: la crapa pelata, il rosario attorno al collo, una nuvola polverosa di particelle che gli brillano in ogni dove. Lo osservo mentre si dà da fare e penso che non possa essere solo per i fantasmi, per la sete di verità o per finire sui telegiornali. Dev’esserci un motivo, una ragione più profonda. Anche se suda lui non si ferma, continua a trapanare come un matto. Appare intoccabile, alle prese con una dimensione parallela fatta d’infinita concentrazione. Sembra non sentire la fatica, non accorgersi dello scorrere del tempo. Sta cavalcano un’onda tutta sua.
Su quell’onda, poco dopo, saliamo di buon grado anche noi. Gli occhi spalancati e le mani indolenzite, le ascelle pezzate e la bocca secca. Non ci fermiamo fino a quando, all’improvviso, si spengono le luci e quel muro alto due metri, finalmente, ci partorisce.
«Dobbiamo aver preso i fili sbagliati.»
«Sì, credo anche io.»
«Frustatevici il culo con quei fili! Ormai è fatta, siamo dentro!»

Se siamo fuori o siamo dentro, in realtà, non lo sa nessuno. Mi piace immaginare questo momento come la copertina di una serie TV ma non riesco a decidere quale. Penso a cosa può esserci raffigurato sopra e non so davvero cosa scegliere tra:

1) Le sagome dei nostri corpi inquadrate da dietro. Alle spalle i detriti e i calcinacci e lo sporco generalizzato.
2) Noi avvolti in una nuvola di polvere, nella luce del tramonto, le facce soddisfatte, inquadrati dal davanti.

L’unica cosa certa è che, una volta calato definitivamente il sole, ognuno di noi è rimasto solo coi suoi dubbi e per di più al buio. Ed è stato proprio a quel punto che abbiamo iniziato a vedere.
Io, di questo buio, ho sempre avuto il terrore. Da bambina iniziavo ad agitarmi già prima di andare a dormire. Mi veniva la faccia rossa da pomodoro e non smettevo di urlare e piangere e nascondermi in bagno con la luce accesa. Mi era capitato più volte di vedere cose strane: l’uomo nero nell’accappatoio appeso alla porta, tende dai movimenti minacciosi e altra roba di questo tipo. Allora mio papà, con santa pazienza, mi raccontava la storia del buio che non esiste.
Diceva: «Scientificamente, escludendo le grotte o le foreste, c’è sempre una bella quantità di luce naturale anche se noi non riusciamo a vederla, e questo è un gran peccato. Ti ci vorrebbero un paio di occhiali infrarossi per accorgertene ma, dato che ora non li hai ed è anche troppo tardi per uscire a comperarli, ti devi fidare di me. Vedrai, quando ti addormenti sarà tutto scuro ma poi, superata la paura, inizierai a vederci bene».
E a noi, quella notte, dispersi in ogni angolo dell’enorme appartamento, è successo esattamente così. Ancor prima di rendercene conto, avevamo gli occhi infrarossi. Non erano gli stessi per tutti, ognuno aveva i suoi. Di certo, distinguevamo nitidamente gli ampi spazi del salone, delle camere da letto e della cucina. Ammiravamo i lampadari in vetro soffiato, la libreria in legno acquamarina. Riconoscevamo lo scintillare dei bicchieri di cristallo, perfettamente ordinati, in vetrinette espositive. Affacciati alle finestre, uno scenario senza paragoni. Il mare, le montagne, gli alpeggi, ma anche il deserto, le foreste, l’alba e il tramonto. Tutto di tutto, unito insieme, da rimanerci stecchiti. Poi, alcuni oggetti hanno iniziato a brillare, emanavano una luce diversa ed era chiaro volessero dirci qualcosa.
Franceschino, catturato dallo sbrilluccicare del frigorifero, coi palmi appoggiati al ripiano della cucina, ha visto crescere un gigantesco albero di limoni con la buccia buona per il limoncello. Desiree, accovacciata sul pavimento di marmo, l’ha visto trasformarsi nella lunga tavola imbandita del suo matrimonio. Lo Squalo, inaspettatamente, è entrato in un recinto pieno di cani ammaestrati di ogni razza, c’erano i cani da caccia, quelli poliziotto e anche quelli per il salvataggio in mare. Vera, stesa sul lettone King Size, giura di aver raccolto centinaia di stelle marine appiccicate al vetro della finestra. Invece Jerry, a dire il vero, quando l’ha raccontato non ci ho capito un granché, quindi non lo so. C’è che sono anni che ci sentiamo come cosparsi da ferite sottilissime, il corpo mutilato da quei tagli della carta che neanche si vedono e che poi basta un niente per farli bruciare come il demonio. Mentre lì, per la prima volta, riuscivamo a vedere i nostri obiettivi anche al buio, proprio come fanno i militari nei film americani. E nel mirino, con nostra grande sorpresa, non c’erano nemici coi mitra spianati, ma tutte le cose, anche quelle più insignificanti, che avevano la potenzialità di renderci felici. Perché sì, è giorno anche di notte, solo che non ce ne accorgiamo.

Illustrazione di Enrico Pantani

Idina Cortesi, classe 1995, diplomata in scultura e modellazione al Nervi-Severini di Ravenna, ha studiato Lettere Moderne a Bologna. Nel 2018 si è diplomata alla Scuola Holden di Torino, dove ha ricevuto il premio Phoebe per il migliore esordio. Attualmente vive in Sardegna, dove dipinge, arreda locali e sta ultimando il suo primo romanzo, Tirocinio nel settore elettrico.

Lascia un commento