Da Filogrammi della Segnatura
Canto la casa tremula, canto la capanna volante
Mi chiede la forma delle entrate
e come prenderanno posto
gli altri
avendo visto nel gheriglio
come gira quando s’apre agli sviluppi.
Tra l’uno e gli altri e Tel-al Hawa,
mi disse Musharrad,
la velata irriga i gigli
e dalle gocce sulle spalle
stilla bave per argento
Ed è nei resti che la striscia appresso ai suoni
di ferrame che conchiglia spalancata
nella sua chiocciola di lupo
e addietro i sordomuti più veloci
li racconcia il suo tintore
ai suoi inerti in laterizio, fango e terra cruda.
Com’è la forma, chiede ancora,
– anche se ci siamo, è qui la conca già evacuata nel verme –
lo vedi, quando entri, dice lei,
è un modulo
come ordine e per prima
la struttura
valido per il corpo diviso in sezioni
a misura dei nuovi piani per l’assetto
e le distribuzioni per reciproci rapporti.
E sotto, per l’esposto nello scarto, tra Jabalia e Al-Bireh,
mi trasse il glossario al durame, in fila a urtecchia alla rondella,
il Bimah sorgeva sul qubba e nell’intraccia una feritoia
si gestisce nel tumulo e Aron ha-qodesh penzolava, appesa a diluvio
la cerniera casca il Minbar e la stele si impila a
mucchio e orecchino.
È tutto liscio nel quadrato di Naveh, senza grinze l’enunciato si spezza
a lodato tu sii pur sempre disgiunto, a data inscritta a cancellazione.
E poi il cielo limpido sotto il raccolto al mattino senza riserva, profondità
dell’aria che squilla a Um-Salem e Rameh Shanin seguito a sciame, per sbaglio.
Tutto, nel crollo, è ancora gestito a sistema e i pezzi sono lì per indicare
l’analisi di chi rientra come se mitzpe ottico fosse avvertito a macchia
di calore nel fermo, che è rimasto a indicizzare gli obiettivi.
Svelti, è una federa incollata a midollo, l’una e l’altra e punta per capello
è un lenzuolo tirato sugli anni e sulle pieghe degli sloggi
è una tiara con le vitte appese ai rami e l’infula scesa sui caschi.
Guarda: se la portano più dietro, di caduta in caduta,
anche se molti non riescono a tirar dritto per le funi
e l’altro allora porta avanti solo un pezzo. E di un pezzo si parla,
quando staccano per dire che sarà altrove anche a pirie,
anche a tranci e qit’ah. E traccia a traccia, non si scolla al detto
il passo sfinente alla risulta e intaccati al bando in fuga
a quell’ultima sua nuca, mai vista, più vista nel girarsi
quando entra, passa l’uscio senza giunto e allineamento
senza gola maniglia e cornice a cappello senza mantice inserto
senza porta piastrella e benvenuto. Senza gli altri dislocati nelle uscite
solo stipite nell’osso e disunto raggelato a quel sue ه Hāʾ ’هو Hu س (Sīn)
ا (Alif) ي (Yāʾ) e ن (Nūn)
tutti lo dicono e nessuno ci sta, dentro
lo affermano, all’indietro, è sura nel mare dell’essere.
Se infili il palmo, sotto l’abaca,
trattiene il guscio e s’astiene il suo bucato a parete
tra le due tese e strizza, a canale e sottoportico bruciato
per le dritte in paraffina e arnia lucente a mezzo uscio
ci scivola in placenta il suo tiro in cammino di legno,
elettrico il blu inamidito al Mitrha giusto al tempio
sottacqueo,
a Mihrab scostato all’egira sul palmo. Sul palmo, sul palmo
a tana rigirata a mezzogiorno e non a mecca.
S’inforca e siede nella notte al filogramma delle coste e
al dito – suo – fermo sull’ago.
Si punta sul granchio il salice a treccia per l’acino sparso,
il mosto si pigia sul muro e picca
a grappoli i suoi dischi
volanti sull’aspo senza mano d’altrove il cerchietto s-finito
per dove ancora s’avvia.
E fuori dal seme lo stesso s’intinge.
Come chi si abitua alla notte
la luce tolse via
dalla casa la sua mano torna a tendersi
sulla maniglia nel vetro sotteso a un rialzo
possibile un contropiano per detti
multipli, suggeriti.
Cercavamo negli indizi del passante.
O sul decreto lineare delle buste e delle cocce
o per linee parallele tra due vertebre:
sol aria divenne col corpo rimase la voce con l’ossa.
E il tetto dentro il palo si bagna la fronte, l’invitato conteggia
il tappezzato sul niente dietro in grotte che
la scarta
e s’abbevera la casa alla pianta staccata a tracciatura
e tutti barano, quindi segna con matita le uscite e i qui più tolti
e i punti a volte
e sotto, i suoi pezzi, li riporta in là per le letture, nel cassetto
c’era il figlio nell’ovale , impronta di carbonio
un ritaglio, nell’incarto dello specchio, in posa per famiglia autenticata
– sottovuoto -,
per il tratto non finito sulla rete di rinforzo.
Me lo sfila alla conocchia, braccio tolto tra le dita testa alta nell’ombra.
Per le uscite, se le toglie, quando vanno
rimesse per il verbo testa bozza scesa a luna per la
pancia a NU Na KE NE senza solchi
incubata per risvegli,
riavvolti
a guardia orditi prima che
nasca
impregnata la tratta
censiti,
riannoda a lampasso lana o lino il suo palco di corna
accecata
dai rosa stinti per quando ci venne
alla vita alle vite
per dopo che ancora
sfila per i tubas
e i bahira e a-shifa che dice sotto al filo,
agli anigni che rotea agli uranghi gli arbusti e macinie che batte agli steli?
Che dice più sotto ai Mhyr degli allacci che d———————————
(Rumori: partitura per tessitori, ciottoli e travi)
Testo e voce di Danilo Paris da Anticiclo di Ankh, Canto II
Resa sonora a cura dell’autore
Opera di Chiharu Shiota
Danilo Paris è scrittore, poeta e formatore teatrale. L’Anticiclo di Ankh persegue una ricerca poetica attraverso il glossario dell’architettura forense, cominciato con Il ciclo delle arche e fa parte di un poema inedito, Segnature e filogrammi, in corso di pubblicazione per Fallone Editore. Il testo attinge all’immaginario della città tridimensionale di cui parla Eyal Weizman a proposito dell’architettura dell’occupazione israeliana e il laboratorio teatrale ad esso annesso è stato elaborato in una dimensione di ricerca sui gesti e sui suoni del controllo e della fuga, che hanno permesso all’opera di svilupparsi. Se il primo canto, Laborintus, racconta lo spazio dell’occupazione, il secondo è invece l’architettura dei frammenti di Gaza.
