Grand Tour | Diari di fuga e ritorno

Sotto i portici di Via Pomba, il mondo sembra galleggiare. Torino ha quella luce strana di fine settembre, gialla e sporca, che si piega contro le colonne e si sparpaglia sui sampietrini. Ogni tanto passa qualcuno in bicicletta, una ragazza con i capelli raccolti e le cuffie infilate fino al cervello, un tipo che controlla la bici con la stessa cura con cui si passa una mano sui baffi.
Ecco, l’ultimo  punk rimasto è un uomo dal portamento deciso e dallo sguardo vivace. La sua calvizie lucente e il sorriso accogliente lo rendono immediatamente riconoscibile.
È qui che Paolo Manera mi trova. Paolo è sempre in movimento: una voce troppo alta, un sorriso di chi ha già pensato tutto prima ancora che succeda. Mi viene incontro, con l’aria di chi sta consegnando un regalo importante. “Irene, devi venire. Miguel Gomes è qui. Ha vinto Cannes con Grand Tour. Probabilmente avete qualcosa in comune.” Paolo Manera mi ha trovata, come sempre, con quella sua capacità di apparire quando non ti aspetti nessuno. Il viso illuminato appena, i passi troppo rapidi.
L’ha detto con la serietà gentile di chi ha capito tutto della vita e la leggerezza di chi non ne fa un dramma. Miguel Gomes è appoggiato a una colonna, con il suo berretto storto e il sorriso sghembo, una linea tagliata male su un viso da esploratore senza mappa. Accanto a lui c’è Atena, un pastore bianco di San Salvario, un cane che sembra la versione ferma e più saggia di noi. Atena osserva il mondo con l’occhio di chi lo ha già capito, ma si diverte a vederci provare lo stesso. I cani, a differenza di noi, vedono i dettagli che contano.
Miguel mi guarda, annuisce appena. Cautela, penso, mentre Paolo ride e mi spinge dentro il Cinema Nazionale.
Paolo si è fermato, con l’aria di chi dice le cose giuste solo quando servono davvero. “Al cinema ci si può sempre nascondere bene.” Lo ha detto come se la sera avesse bisogno di una ragione per esistere. Manera sorride: “Probably you have something in common.”
Ho annuito. Aveva ragione, sempre.

Frame da Grand Tour di Miguel Gomes

La sala del Cinema Nazionale sembrava un altro mondo. Poltrone rosse, odore di polvere e vecchie storie appoggiate ai muri. Quando le luci si sono spente, tutto si è fermato.
Grand Tour è iniziato. Bianco e nero. Edward scappa il giorno delle sue nozze. Scappa in Myanmar, a Singapore, in una Cina che è un fondale di cartone, con luci che cadono dove non dovrebbero. Le pause diventano più vive dei movimenti. I vuoti si riempiono di qualcosa che non si vede.
E lì, tra i cartoni dipinti, ho visto il mio Vietnam. Le strade umide di Saigon, le insegne storte, il rumore di motorini e voci in lontananza. Ho visto la mia Cambogia, i mercati di Phnom Penh, il caldo che si appiccica come colla. Il set da tè che volevo spedire come regalo di nozze. “Non è possibile, madame.” L’avevano detto piano, in un francese stanco e fuori tempo massimo. Le parole erano cadute come monete sul pavimento. È un film che non va da nessuna parte eppure arriva ovunque. Bianco e nero, immagini spezzate e ricomposte come un collage fatto a mano. Edward scappa: dal matrimonio, dalla vita, dalla scena. Myanmar, Singapore, la Cina che sembra vera eppure finta, con i cartoni dipinti che riescono a pulsare. Ogni luogo è reale e artificiale, come un mondo costruito nella testa di qualcuno che non sa più dove andare.

Grand Tour di Miguel Gomes è un viaggio onirico attraverso paesaggi asiatici del 1918, dove realtà e finzione si intrecciano in un bianco e nero suggestivo.

Le scene si susseguono come frammenti di un sogno: un uomo in abiti coloniali cammina solitario tra le risaie, una donna osserva l’orizzonte da una finestra socchiusa, ombre cinesi si stagliano su pareti di carta, un treno sferraglia lento su binari arrugginiti, mentre bambini giocano con aquiloni sotto un cielo senza tempo. Le immagini, delicate e potenti, evocano un mondo sospeso tra passato e presente, realtà e immaginazione.

Frame da Grand Tour di Miguel Gomes

La sala ride – di una risata strana, improvvisa, che si ferma a metà, come se nessuno sapesse se fosse davvero il momento giusto per ridere. I titoli scorrono, e gli applausi arrivano lenti ma pieni, come un respiro trattenuto troppo a lungo. Miguel si alza, si sistema il berretto, mentre Paolo è già pronto: “Andiamo a bere.”

Il film continuava, ma ormai ero lì. Non a Torino, non al cinema. Saigon, Phnom Penh, San Salvario. Luoghi che si piegano come una cartina stropicciata, che si sovrappongono fino a diventare una cosa sola. La sala rideva a tratti, poi taceva. Io non ridevo. Applaudivano, alla fine, e mi sono unita anche io, in ritardo.

Stazione di Saigon, Vietnam



San Salvario, Via Berthollet. Il DDR è un bar con l’aria di chi non ha mai chiuso. I tavolini sono piccoli, rigati dai bicchieri di altre serate. C’eravamo noi: Paolo Manera, la moglie, due amici che ridevano troppo, Miguel Gomes, io e Athena, accucciata sotto il tavolo, un’ombra bianca che respira.
Miguel guarda il barista e sorride: “Fammi un Highball come quelli di Tokyo. Vediamo se riesci.” Il ghiaccio cade male, troppo rumore, la bottiglia sbagliata. Miguel beve, inclina la testa: “Non è Tokyo, ma va bene lo stesso.”
Poi si gira verso di me, gli occhi che scivolano sul taccuino sgualcito sulle mie ginocchia. “E tu? Che viaggio hai lasciato a metà?” Ho pensato a Saigon, al mio Vietnam. Quindici giorni, le strade strette e i mercati che sanno di frutta marcia e spezie. Ho pensato alla Cambogia, alla polvere bianca e ai templi che sembrano rotti di proposito. Al regalo nuziale che non è mai partito.
“Non è possibile, madame,” avevano detto.
Miguel ha annuito, come se capisse. “Anche il cinema è questo. Ti perdi, inventi il resto.” Ha preso la mia penna e ha scritto qualcosa nel taccuino. Non ho guardato. Alcune parole esistono meglio quando restano nascoste.

Saigon, Vietnam

Fuori dal DDR, Torino sembrava un’altra città. La notte sapeva di pioggia che non arriva mai. Un uomo cinese fumava al telefono, fermo sotto un lampione che tremava. Il fumo saliva lento, come un segnale che nessuno stava guardando. Atena si è alzata, ha scrollato il pelo bianco e ha guardato avanti, oltre di noi. Come per controllare che il mondo non si fosse spostato troppo: cachemire, mongomery, zolletta di zucchero, Clark morbide. Ho ordinato due grappe, perché non ero certa di avere qualcosa di importante da dire, e nel dubbio, meglio tenere il bicchiere pieno. Le tazzine erano incrostate di zucchero, il fondo raggrumato come i ricordi di certe domeniche.
La sala aveva applaudito poco prima, con quell’entusiasmo sincero che non ti aspetti mai. Lui si era voltato verso di me e senza pensarci gli avevo dato il mio taccuino stropicciato. Scrivi qualcosa, gli avevo detto. Così, senza motivo.
Fuori, il cane lupo si accucciava sotto il tavolo di uno che parlava al telefono. Io mi sono ritrovata a pensare a Saigon. Al mio Vietnam. Era stato il mio “grand tour”, 15 giorni a cercare qualcosa che non volevo trovare.

Miguel ha preso il mio taccuino stropicciato, lo ha girato un paio di volte tra le mani e ha chiesto: “E tu, cosa stai scrivendo?”. Gli ho raccontato dei miei viaggi, della voglia di spedire degli oggetti improbabili. Lui ha annuito: “Anche io volevo andare in Cina, sai? Ma ho girato in Giappone. È strano, a volte il cinema ti porta dove non volevi andare.”
Miguel si è fermato accanto a me. Si è sistemato il berretto con quel gesto che sembra sempre l’ultimo della scena. “Facciamo finta che sia tutto vero,” ha detto.
E in quel momento, l’ho fatto davvero. Ho creduto che il cinema potesse essere Saigon, San Salvario, Phnom Penh. Che si potesse scappare senza lasciare niente indietro. Che i cocktail sbagliati e le parole mai dette valessero come le cose vere.
Il primo cocktail è arrivato: ghiaccio tagliato male, qualche tentativo maldestro di lime. Miguel ha sorriso come un giocatore che accetta la sconfitta. Ha alzato il bicchiere verso Atena: “A noi, che scappiamo.”
E poi ho pensato a Edward, il protagonista di Grand Tour. Quel suo viaggio attraverso il Myanmar, Singapore, le campagne cinesi che esistono solo nei film. Scappare il giorno delle nozze, fuggire da qualcosa che hai scelto tu stesso. Come me che scappo sempre dalle parole appena scritte, come Atena che non si fida mai davvero di nessuno.
Miguel parlava del suo film con l’aria di chi racconta un aneddoto, e non un’opera vista da centinaia di persone. Ha detto che il cinema è una cosa che si fa per divertirsi, ma che spesso ti prosciuga tutto. Ha bevuto un sorso e ha aggiunto: “Ma ti accorgi sempre troppo tardi che ne valeva la pena.”
Miguel ha costruito un’opera che respira come un sogno: in bianco e nero, con immagini nitide e sfocate insieme, come un ricordo che stai per perdere e a cui ti aggrappi all’ultimo momento. Lo spazio diventa tempo, e il tempo si ripiega, come una cartina stropicciata da un viaggiatore stanco. Non siamo mai dove crediamo di essere: a volte siamo in Myanmar, a volte in un angolo di studio, con luci artificiali e cartoni dipinti che, inspiegabilmente, riescono a sembrare più veri della realtà.
Il protagonista, Edward, scappa. E questa fuga non è codardia, è una trasformazione. La fuga di Miguel, come quella del suo eroe, non è una fuga da qualcosa, ma verso qualcosa: verso l’invisibile, verso l’inatteso. È un cinema che non ha paura del vuoto, delle pause, delle cose che non succedono. Perché in quel vuoto, in quell’attesa, c’è lo spazio per ciò che il cinema ha sempre cercato di catturare: il mistero.
Ho riso quando Miguel mi ha raccontato della quarantena in Cina, della sua paura di non poter fumare. È tutto qui, in fondo: il cinema è anche sacrificio, resistenza, insistenza. E, nel suo film, questa esperienza è evidente. Grand Tour porta con sé il senso di un viaggio interrotto, come se il mondo stesso avesse chiesto al regista di fermarsi e guardare. Ma Miguel, invece di arrendersi, ha inventato il cinema ancora una volta, dentro uno studio, tra luci artificiali e ombre che sembrano vive.

Miguel ha sorriso. Mi ha chiesto del mio futuro, di quello che farò adesso. Ho risposto che non lo so, e la cosa mi ha sorpreso, come se a dirlo fossi stata un’altra. La verità è che non lo sapevo davvero. Il futuro mi sembra un cane lupo: silenzioso, in attesa.

Ho buttato giù l’ultima grappa mentre Miguel parlava del suo film, del viaggio interrotto, della Cina dove non è mai arrivato. “Per il cinema si fanno sacrifici,” ha detto, come se fosse una battuta da inserire nei titoli di coda. E io ho pensato che forse ha ragione, che qualcosa nel vedere un cinese che fuma al telefono ti può riportare a casa, se casa è uno spazio di tempo sbagliato, di parole fuori posto e di tazze da tè mai spedite.

Grand Tour non è solo un film: è un oggetto fragile, un diario di viaggio che esiste nello spazio immaginario tra lo studio e il mondo. Il viaggio, Miguel ce lo ricorda, non è mai dove ti trovi ma dove credi di stare andando, o da dove stai scappando.

Grand Tour non è un film, è una pausa. È un bianco e nero che respira. È Edward che scappa, ma non sa se vuole tornare. È il Vietnam, la Cambogia, la fuga che non è mai completa. È Saigon in un cinema di Torino e un cane bianco che ti guarda mentre pensi troppo.
Al cinema ci si può sempre nascondere bene.
Ma poi il cinema ti trova. Ti prende per mano, ti porta dentro le strade che credevi di aver dimenticato. E allora tutto diventa vero, anche quello che non lo è mai stato.
Atena camminava davanti a noi, bianca, calma, sicura. E io ho pensato che forse anche il tempo può piegarsi come una cartina. Se ci credi, tutto può esistere.
E io ci credo.
È un viaggio che ti succede anche quando non lo vuoi. È la fuga di Edward, che non è una fuga ma un modo di ritornare. È un cinema fatto di pause, di spazi vuoti che diventano pieni. La luce cade sbagliata, le ombre si allungano dove non devono, eppure è lì che vedi tutto.
A quel punto mi guarda. “E tu, quale viaggio non hai finito?”
Forse è proprio questo il nostro occhio di libellula che ci arricchisce.

Immagini tratte da Grand Tour di Miguel Gomes (lucky red, 2024)

Irene Dorigotti (Trento, 1988) è un’antropologa visiva, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna e laureata presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Società della Cultura dell’Università di Torino. Si occupa di cinema e scrittura di racconti. Autrice e redattrice di «Neutopia» per la rubrica Aleph. Il suo primo lungometraggio, Across (2023), è stato presentato all’81° mostra internazionale del cinema di Venezia. Tra i suoi lavori precedenti: Apnea (2019), Herz‐Jesu‐Feuer (2021), Ora sono diventata foresta (2021), presentato a Filmmaker nel concorso Prospettive, Le Grand Reve (2022) invitato al Trento Film Festival. Insegna cinema all’Accademia di Belle Arti di Verona.

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