Bardala | Resilienza tra i tubi nel deserto

Desidero solo morire nella mia terra, | esservi seppellita, | fondermi e svanire nella sua fertilità | per resuscitare erba nella mia terra, | resuscitare fiore | al quale toglie i petali un ragazzo cresciuto | nel mio paese.
– Fadwa Tuqan, poetessa palestinese

Mi sveglio in un giorno qualunque. Penso a quando alcuni attivisti parlavano di far tornare un “autunno caldo”. Da allora è passato un anno e questo è effettivamente l’autunno più caldo che possa ricordare. Forse è il più caldo mai registrato. Non che voglia dire nulla: ci si muove più lentamente, si cammina sul lato della strada in ombra, ci si veste ancora estivi. Non siamo nel ’69 e non siamo operai.

Niente segna lo scorrere del tempo da questa parte del fronte occidentale, dalla guerra in Ucraina in avanti. Poi, in un attimo, dalla home di Instagram Repubblica titola: “Attacco senza precedenti contro Israele”. Nonostante la drammaticità dell’evento, ho cercato di provare un’emozione come si cerca di starnutire quando si sente lo stimolo, senza davvero riuscirci.

Riguardo le immagini successive, l’evolversi atroce del conflitto. Nell’ultimo aggiornamento, la conta dei morti è oltre il migliaio, arrivano alcune indiscrezioni sull’utilizzo di fosforo bianco da parte di Israele, alcuni video su Telegram mostrano jihadisti che saltano a piè pari sulle teste dei cadaveri, assalti dai cieli ai rave, ostaggi tra i tunnel di Gaza e blande, sciatte condivisioni, riassunti su infografiche nei post in evidenza. Ma non mi interessano. Basterebbe muovere un dito per relegare il tutto alle “storie già viste”.

Meglio tagliare ogni collegamento con il mondo esterno e tornare con la mente a una domenica di sei mesi fa, quando ero alla periferia della valle del Giordano e non esisteva altro. Appena arrivato, avevo appuntato questa frase sui miei diari: “Qui si fa politica come si fa il pane, dalla terra, lo si impasta con le mani, per consumarlo in giornata.” La relazione in senso non metaforico, ma fisico, contadino, quasi corporale che hanno gli arabi con la terra, l’ho sempre trovata molto peculiare. Il senso dei corpi, del contatto con il suolo è qualcosa che mi torna spesso anche oggi.

Veduta di Bardala

Ricordo rocce, fiori e tubi neri. Tubi ogni tre passi, tra le strade, nei campi, oltre le case. Mai in vita mia avevo dovuto prestare tanta attenzione a non calpestare qualcosa. Tra quelle colline, dove ogni cosa è religione e sopravvivenza, pestare un tubo può essere totale. Ricordo l’attenzione di chi mi precedeva ed io che controllavo a terra come se fossi su un campo minato. Anche Rasheed guardava a terra, e sembrava affaticato dal primo momento in cui si svegliava.

Questo non deve stupire: il sole della Palestina è un altro sole rispetto al nostro, un sole che con un raggio nutre e con l’altro asseta, mentre la vita prova a scassinare l’eternità. Il rapporto che i contadini di Bardala hanno con l’acqua è immediatamente e irrimediabilmente politico. Riassume tutte le caratteristiche dell’occupazione israeliana: lenta, capillare, meta-legale, estremamente burocratica, economica e immorale. È un rapporto emblematico, come vendere un’acqua che non ti appartiene, in un posto circondato da insediamenti illegali.

Il tubo che riparammo una notte, di fronte a una fattoria, io che colpivo col piccone per spostare la terra che lo nascondeva, Rasheed che cercava le guarnizioni giuste, mentre un ragazzetto reggeva la torcia in mano, passava di fronte al giardino di una sua vicina di casa, ragione per cui fu arrestata e sottratta ai figli per giorni. Dovette pagare una cauzione ridicolmente sproporzionata per poter tornare a casa. I tubi che costeggiano Bardala sono tutti illegali.

Rasheed di fronte al suo villaggio

Quel nugolo di mille anime circondato dal deserto è sempre stato citato come una delle zone con le più antiche fonti d’acqua della Cisgiordania settentrionale. Nel 1882, un documento del Palestine Exploration Fund’s Survey lo descriveva come una sorta di oasi per pastori e coltivatori, proprio grazie alle sue fonti miracolose. Dal 1967, però, le fonti sono state connesse alla rete idrica israeliana che estrae ogni ora migliaia di litri d’acqua. Mekorot, l’azienda idrica nazionale israeliana – complice di crimini contro l’umanità, secondo Amnesty International – si è offerta per un po’ di rivendere ai palestinesi la propria acqua a prezzo maggiorato.

Questa enclave palestinese nel nulla, circondata da più di trenta insediamenti illegali di coloni israeliani è costellata di strade, check-point, corridoi protetti che i palestinesi non possono attraversare. I contadini palestinesi devono quindi creare degli agganci “abusivi” ai bacini dell’acqua che viene estratta dalla loro stessa terra (area C, riconosciuta dal diritto internazionale), stivarla in serbatoi illegali nascosti tra le colline e con una complessa e precaria rete di tubi, innaffiare i propri campi, fare la lavatrice. Rischiando tutta la violenza dell’occupazione: raid notturni, arresti arbitrari, violenze fisiche, espropri e demolizioni.

Sono anni che l’esercito arriva e distrugge il sistema idrico dei contadini. E loro, con la stessa determinazione e quelle poche risorse tipiche di chi sta da quel preciso lato della storia, lo ricostruiscono. Rasheed parla di almeno undici volte negli ultimi anni.

Una forza che mi lascia attonito e ammirato. Perché tutta la mia magra morale borghese la chiamerebbe follia. Per loro è esistenza. Rasheed è un contadino, solitario per indole e socievole per necessità, ma in quanto palestinese è chiamato a combattere quotidianamente da sempre. Solo che lui combatte così. Riprendendosi l’acqua, rischiando la vita. Come un fiore che si ostina a crescere nell’asfalto, Rasheed coltiva zucchine nel deserto, a fine giornata, quando piovono a cascata i canti dei muezzin e i cani corrono in branchi sui tetti a sentirli, dà da mangiare a cani e cavalli, mette a letto i figli nella giacca di montone e rimane sveglio; i suoi zigomi sono versanti di colli difesi dall’orgoglio mentre si stende sul pavimento della sua fattoria, avvolto in una coperta.

Per questo a Bardala c’è una specie di attenzione rituale, durante il cammino, verso i tubi che portano l’acqua ai campi. Calpestarne uno sarebbe come calpestare un’arteria. Si guarda a terra. Un desiderio ispirato dalla legge di gravità. Non fosse altro per ricordare le relazioni di potere che la sabbia sembra voler nascondere. In quella ripetizione contadina, in quel santo silenzio, sentivo sopravvivere qualcosa di incomprensibile, qualcosa di altro.

I bambini fuori dalle scuole dell’UNRWA giocavano a pallone, gli adolescenti a cavallo senza sella scendevano i monti, le anziane preparavano il tè prima della preghiera della sera. Una vettura dei coloni con le bandierine dello stato di Israele è passata di fronte alla scuola di Bardala all’orario di uscita. Mi hanno raccontato che lo fanno spesso solo per “fare sentire la loro presenza”. In meno di un secondo, quasi tutti i bambini, di massimo sei o sette anni, hanno iniziato a cantare violenti cori contro l’occupazione. Sapere della questione è un “dovere morale” che viene raccontato fin dalla più tenera età, per “rispetto” dei martiri, che sono sempre più giovani. Quasi tutti conoscono un parente, un familiare, un vicino, morto per via dell’occupazione. Non importa se sia morto facendo un attentato o se sia saltato per sbaglio su una mina antiuomo, sono tutti “martiri” dal punto di vista palestinese. Dalla voce degli studenti, l’occupazione è una cosa completamente normale e integrata nella loro quotidianità, parte della loro identità.

Bambini a Bardala

Quando staccava le erbacce alla base delle piante di ceci, Rasheed teneva la base ferma, imprecava e guardava a terra. Un pomeriggio inchiodò col pick-up e spense la radio, tolse le mani dal volante per sentire il vento tra le spighe dei campi, aprì la portiera, zittì tutti e sorrise chiudendo gli occhi. Disse: “è lei che canta”. Mi portò oltre il colle della sua fattoria, fra i resti di un villaggio raso al suolo dall’esercito israeliano, dove un tempo vivevano i suoi antenati. Prese a camminare, torturando tra le dita un fiore spinoso. Iniziò a raccontare di storie che trovano rifugio solo nei suoi ricordi e – prendendo a calci le macerie – guardò a terra. Il resto della sua giornata era di un’indicibile solitudine. Lo vedevo portare il cibo per tutti e mangiare da solo, dormire da solo, lavarsi da solo la sera, di fronte al nulla. Gli stava bene così. Sembrava potesse sopravvivere al mondo, lui da solo. Con quella determinazione, senza muoversi di posto, come un ulivo di settant’anni.

Lui sapeva di essere nato per questo, nel ripetersi diventava eterno e l’eterno porta consegne ardimentose oltre ogni calendario. Lo fissavo nella sua impenetrabile intimità contadina spezzata da una sigaretta. Ogni giorno il suo desiderio si faceva una tana dove morire al riparo da tutti gli inverni che il letargo dell’abitudine depositava. Mentre lo aiutavo a riparare i tubi con cui rubava l’acqua per coltivare le zucchine, che come la chiama lui è “agroresistance”.

Rasheed contempla il deserto di Bardala

A inizio anno, l’italianissima Iren ha firmato un accordo all’interno dei suoi 12,7 miliardi di investimenti per la transizione ecologica, assieme a Mekorot. Si legge dal loro sito:

Iren, la multiutility italiana leader del Nord Ovest, e Mekorot, la compagnia idrica nazionale di Israele, hanno siglato un protocollo d’intesa per lo sviluppo e la condivisione delle rispettive conoscenze industriali e best practice nel settore idrico. L’accordo è stato firmato da Luca Dal Fabbro, presidente di Iren, e da Yitzhak Aharonovich, presidente di Mekorot.

Possiamo dormire sonni tranquilli, sapendo che il know-how israeliano verrà importato anche in Italia, suppongo. Da qualche anno, però, l’amministrazione d’occupazione di Israele ha deciso di tagliare l’approvvigionamento idrico a 2.000.000 metri quadri di terreni agricoli attorno a Bardala, da cui dipendono le vite di tutto il villaggio e di quelli adiacenti. È amaramente ironico che questo accordo abbia avuto pochissimo peso nei media italiani e da parte dell’associazionismo in genere. Nonostante i tentativi di risonanza da parte di BDS Italia, infatti, la manovra viene venduta come “una collaborazione non economica”, quando qualsiasi collaborazione ha per forza un fine economico. In questo modo, si condonano le responsabilità dell’azienda con cui si sta facendo l’accordo. Come a dire: “Se non ci si scambia denaro, non c’è problema a fare accordi con i criminali”.

“Non esiste un equivalente della parola araba qaher قهر. Il dizionario dice “rabbia”, ma non lo è. È quando prendi la rabbia, la metti sul fuoco basso, le aggiungi l’ingiustizia, l’oppressione, il razzismo, la disumanizzazione e la lasci cuocere lentamente per un secolo. E poi provi a dirlo, ma nessuno ti sente. Quindi si trova nel tuo cuore. E si deposita nelle tue cellule. E diventa la tua impronta genetica. E poi attraversa le generazioni. E un giorno ti ritrovi incapace di respirare. Ti travolge e chiede di uscire da te. Piangi. E il ciclo si ripete”.

Khadija Muhaisen Dajani

Mentre ripenso a tutto questo, ho l’immagine latente di un areoporto affollato, in piena notte. Forse Ben Gurion, non lo so. Cittadini israeliani residenti all’estero tornano per prestare servizio militare con voli speciali dall’Italia, dalla Polonia, dagli Stati Uniti. Padri di famiglia, giovani ancora vestiti estivi, ragazze in canottiera. Persone comuni appena rientrate dalle ferie che domattina non andranno in ufficio. Indosseranno una tuta mimetica e imbracceranno un fucile d’assalto. Guideranno un carro armato. Forse uccideranno qualcuno, in questo autunno caldo.

Un impiegato della Mekorot ha dichiarato che l’azienda cercherà di trovare un accesso alla sorgente d’acqua per Bardala a partire dal 2040. Fortuna che noi, entro il 2030, grazie alle multiutility saremo diventati completamente sostenibili. Forse potremo inviare loro la nostra San Benedetto.

Vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore. Prima o poi me ne andrò da tutto questo, a ricercare quella pietra.

Fotografie dell’autore

Mirko Vercelli (Torino, 2000) si occupa di cultura pop, politica e media e collabora con il Centro Studi Sereno Regis. Fondatore della rivista indipendente bonbonniere, ha pubblicato il romanzo Linea Retta (bookabook, 2021) con il patrocinio di CUAMM Medici con l’Africa.

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