Piangiamo al risveglio e abbiamo paura delle ferie; scarichiamo app per la depressione perché non abbiamo soldi né tempo per la terapia; facciamo lunghe sessioni di “inspira e riempi i polmoni – trattieni 1,2,3 – ed espira buttando fuori l’ansia” prima di addormentarci. In ogni luogo di lavoro, chi più e chi meno vive una situazione simile. Tu quante ore lavori al giorno?
Dopo il lockdown e il conseguente smart-working diffuso, molti lavoratori dipendenti hanno toccato con mano uno stile di vita più rilassato, che quantomeno non prevede più spostamenti nel
traffico e che lascia più tempo per i rapporti personali.
Molti altri, però, hanno invece vissuto un peggioramento delle condizioni lavorative (niente più orari definiti, presenza obbligatoria a prescindere dai contagi, mancanza di flessibilità o aiuto per lo smart-working, …) e, così, stando ai dati del Ministero del Lavoro, nel secondo trimestre di quest’anno, in Italia circa mezzo milione di persone ha scelto le dimissioni volontarie. Un aumento vertiginoso – quasi il doppio – rispetto al periodo pre-pandemia. La “Great Resignation”, esportata dagli USA con questo nome, sta avendo luogo anche da noi, in particolare nel Nord.

Non è difficile da credere, se guardiamo a esperienze più concrete.
A Milano, e ovviamente non solo, la regola, sia pre che post lockdown, è sempre quella secondo cui più lavori, meno probabilità hai di subire l’umore nero del capo. O forse no.
I luoghi cittadini in cui l’ansia quotidiana del lavoratore d’ufficio si consuma maggiormente, soprattutto a Milano, sono le centinaia di agenzie di comunicazione.
Settore che, ogni anno, pesca e rigetta poi nel mare delle offerte di lavoro migliaia di “creativi”.
Parola che mette i brividi, ma che usata con un tono illustre fa brillare gli occhi a tanti laureati in materie umanistiche: ti raccontano per anni che non troverai lavoro, e poi eccolo lì, dopo qualche stage non pagato.
Tra loro, le agenzie di comunicazione continuano a farsi la guerra su chi cambia più tirocinanti in meno tempo, su quale ufficio vanta l’età media più bassa, su quale tiene i dipendenti online per più ore.
A Milano, la sera in qualche vineria o nel weekend nei diversi spot radical-chic per gli aperitivi, li incontri, sempre tra colleghi o con qualche amico che fa più o meno lo stesso lavoro.
Sono riconoscibilissimi, parlano di comunicazione e pubblicità ad alta voce e con tecnicismi gergali.
Soprattutto, li senti raccontare degli stagisti e delle situazioni con questi, con “lo stagista nuovo” o con “lo stagista che c’era prima”. Quantomeno il CEO lascia fare smart. Nel senso che si può lavorare anche mentre si aspetta la cena delivery.
Tutto ciò, ovviamente, non accade solo nelle agenzie di comunicazione, ma sono sicuramente un buon esempio.

Tra queste ne spicca una in particolare, che chiunque abbia cercato “writer” o “copywriter” su LinkedIn ha trovato. È l’agenzia più conosciuta in città, ma non esattamente per i clienti che vanta, seppure siano enormi e importanti, quanto più per gli orari di lavoro massacranti e non retribuiti, e la competizione logorante tra team dello stesso ufficio. Ho chiesto a un amico di regalarmi la sua testimonianza come dipendente dell’agenzia in questione. Lavorandovi ancora, perché come me giovane e “neo-laureato” (che in altre parole significa “non puoi permetterti di cambiare lavoro entro l’anno”), chiede comprensibilmente di restare anonimo.
Conoscendo già la sua situazione e le situazioni più insopportabili che vive quotidianamente, è stato più facile fargli domande mirate, ma allo stesso tempo anche più difficile ricorrerlo in questi giorni che precedono la pausa natalizia.
Da quanto tempo lavori all’interno della tua agenzia?
Ormai, tra una cosa e l’altra, da due anni e mezzo. Ho fatto sei mesi di stage extracurricolare, facendo il pendolare perché non potevo permettermi una stanza a Milano, poi mi hanno preso per sei mesi a tempo determinato (in periodo Covid, per un pelo), anche se il contratto era come collaboratore esterno, e poi mi hanno preso in apprendistato. Quindi, tecnicamente, per i prossimi tre anni avrò questo contratto e, alla fine di questo, partirà l’indeterminato. Tra un mese finirò il primo anno di apprendistato, ne sono felice: avrò più potere contrattuale e un incremento sullo stipendio, così potrò cambiare stanza e zona in cui abito. Anche se gli stipendi da noi non sono alti, sebbene le posizioni che ricopriamo siano molto buone: altri copywriter di altre agenzie prendono di più e lavorano meno. Da noi “paga” la fama del posto. Se io tra un mese cercassi un altro lavoro, troverei posizioni incredibili.
Dopo aver studiato Lettere, ti aspettavi di trovare un lavoro come copy in un’agenzia di comunicazione?
In realtà, la mia posizione qui viene definita “writer”. In un certo senso, questa cosa lo fa assomigliare molto di più a quanto immaginavo da studente. A parte questo aspetto “ironico”, la risposta è no. C’erano amici e compagni di corso più grandi che facevano il dottorato, nessuno che conoscessi lavorava nella comunicazione. Appena laureato, mi sono messo a cercare di tutto e ho scoperto questo ambiente. Questo rappresenta tutto ciò che non avrei mai voluto diventare e, spesso, è difficile scendere a patti con la mia indole, o quantomeno i miei studi, e la mia mansione, quando devo scrivere frasi accattivanti per nuovi aspirapolveri.
Come funziona una giornata lavorativa standard nel tuo ufficio?
Vado in ufficio solo due giorni a settimana. Quando vado, entro alle 9 e finisco quasi sempre alle 20. In questo periodo, esco alle 21. Sto evitando di tornare a casa dai miei genitori, perché nel nostro ufficio togliamo spesso la mascherina e stiamo molte ore in stanze poco arieggiate.
Facciamo anche aperitivo, lì dentro, così ci sembra di staccare un po’. I restanti giorni, faccio tutto da casa: lavoro da quando mi alzo dal letto a quando chiudo gli occhi. A dire il vero, non per forza sto davanti al pc tutto questo tempo, però sono reperibile e mi si chiede di scrivere cose, ricondividere o commentare sui social. Eseguo gli ordini, ma ne subisco comunque le conseguenze; non necessariamente dai miei superiori, ma direttamente dai clienti, perché in questi casi il filtro “scompare” e l’ultimo elemento della catena alimentare è obbligato a inscenare la propria incompetenza. Sono io a prendermi la colpa.
A volte, invece, sto davvero davanti al pc fino a sera e non ho tempo di fare nessuna pausa, nemmeno per bere o andare in bagno. Sabato scorso ho lavorato 14 ore, anche se non dovrei lavorare nel weekend.

Tra pochi giorni ci saranno le ferie natalizie, cosa comportano per te e per i tuoi colleghi?
Personalmente, mi spaventano. Sia perché so che non staccherò totalmente, sia perché i periodi attorno ai giorni di ferie sono deleteri, soprattutto le settimane che precedono il Natale in un’agenzia di comunicazione. Ogni nostro pensiero è orientato a soddisfare i clienti e a creare piani editoriali nuovi senza preavviso. Io sono l’ultima ruota del carro, ma la mia vita è comunque stata messa forzatamente in pausa nelle ultime settimane.
Ogni volta che stacco, ho una crisi di nervi, ma so che devo dormire un minimo di ore necessario a lavorare il giorno dopo. Il mio fisico ne risente, sto seduto troppe ore, mangio senza rendermene conto, il pc mi assorbe.
Ma, almeno, quando lavoro da casa non vedo lo scempio degli altri e, in particolare, degli stagisti.
Loro sono in ufficio, in pratica, per fare il caffè. Il mio capo usa letteralmente gli stagisti curricolari per fare il caffè: va da loro e si inventa ogni giorno modi “creativi” per dirlo, tipo “La skill fondamentale per ogni posto di lavoro non è usare Adobe, ma fare il caffè!”; altre volte urla e basta, finché qualcuno gli porta la tazzina. Per tornare alla domanda di prima, no, non ho studiato Lettere per questo. E nemmeno loro, ma da dopo il lockdown e l’impossibilità di trovare stage necessari alla laurea, si sono baciati i gomiti quando sono stati presi qui. Anche per questo, penso, non si ribellano alle richieste di caffè. Per quanto mi riguarda, credo mi sia andata bene, meglio che a loro o ad altri: non vengo trattato così male, sono pagato a sufficienza per una stanza (per ora doppia) a Milano, ho trovato lavoro appena in tempo e ho scampato il lockdown senza lavoro. Sono fortunato. Di sicuro mi licenzierò entro il 2022.
Bisogna solo tenere duro abbastanza per poter avere skills da “rivendere” sul mercato del lavoro, per avere potere contrattuale. Oppure, non si tiene duro affatto e si lascia tutto per puntare sulla
partita IVA, che però non tutti sanno gestire al meglio e che comporta altre mille preoccupazioni e problematiche.
Insomma, la “Great Resignation” prende piede ma i luoghi di lavoro non vogliono comunque adeguarsi. All’estero si sperimenta la settimana di quattro giorni, qui di sette. Se nemmeno una pandemia è riuscita a smuovere veramente il sistema del lavoro, cosa potrà farlo, finché avremo bisogno dello stipendio per pagarci l’affitto a Milano?
[…] Reportage scritto per Neutopia […]
"Mi piace""Mi piace"