L’animale nella fossa è la recording session di un tuo lavoro inedito, che raccoglie testi anch’essi per lo più inediti. È adatto ad essere performato dal vivo, com’è tra l’altro già avvenuto in anteprima lo scorso anno nel contesto dell’Art Site Fest.
Nei tuoi ultimi versi poetici, ma anche in Manovre Segrete, il legame col teatro diviene via via più evidente e inscindibile. È un processo spontaneo o scrivi già pensando alla possibile performance live?
Non compongo per la consegna orale della poesia, non volontariamente almeno. Eppure, c’è un segreto nell’organizzazione sonora e ritmica del testo, nella sua formalizzazione, che non posso ignorare. Il mio lavoro sul piano perfomativo intreccia uno studio sul testo poetico nella sua dimensione orale, e le sue problematicità in relazione ai nuovi dispositivi, a una ricerca sul paesaggio sonoro. Nella fase embrionale del progetto – ormai tre anni fa – ho sperimentato possibilità e scambiato pratiche con svariat+ musicist+ della scena contemporanea e con artist+ di attitudine e formazione molto eterogenea, finché, nel 2016, con la pubblicazione di Sisifo, si è consolidata la collaborazione con l’artista toscano Alberto Papotto. In quel periodo la ricerca era focalizzata sulla voce come paesaggio, sulla pratica del field recording, e sullo studio dei rumori, sia vocali che concreti. Ancora lontana da una forma ritmica o elettronica, la questione performativa ruotava intorno alla costruzione di paesaggi poetici analogici e impastati. Questo progetto, da sempre caratterizzato da una fluidità delle forme, da una disponibilità a nuove inclusioni, oggi trova un suo assetto specifico grazie alla collaborazione con il sound designer milanese Riccardo Santalucia, che ho incontrato grazie al Teatro Valdoca e con il quale ho da subito condiviso un campo di sensibilità comune. Siamo riusciti a costruire una drammaturgia sonora complessa e stratificata, a immaginare un habitat fluido e sempre rinnovabile. In questo senso il live-set può essere ripensato e immaginato nell’ottica di un lavoro site-specific.

Musica, suono/rumore e poesia, viaggiano assieme o l’una si piega al volere dell’altra?
Per me i piani si intersecano, ribaltano e sovrappongono. Tutto il lavoro sta in quelle zone liminali in cui la voce è paesaggio: il paesaggio è il testo, e il testo è la voce. La musica c’entra solo relativamente, ho sempre dedicato molta più cura e attenzione ai rumori, alla pratica e alla costruzione di paesaggi. Ora hanno trovato una forma drammaturgica, quindi riescono a non esaurirsi in stanze o ambienti isolati, ma sono tesi alla produzione di un percorso.
“Tutto il lavoro sta in quelle zone liminali in cui la voce è paesaggio: il paesaggio è il testo, e il testo è la voce.”
Questa questione della drammaturgia e della costruzione di paesaggi è molto evidente, infatti, venendo al testo poetico. Un concetto che mi ha particolarmente toccata è la verticalità che ritorna, fragile – dai palazzi alle lacerazioni – e fa pensare a una sorta di teatrino di burattini. Tutti gli abitanti di questi versi sono come appesi a un filo sottile, pronto a staccarsi. Da qui la vita come esercizio di leggerezza; le parole che scegli, che sono sempre delicate se prese singolarmente, e che acquistano la sottigliezza di una lama se messe insieme. Può, secondo te, un’accurata scelta estetica salvare l’animale dalla fossa e costruire un paesaggio migliore?
Secondo me l’animale nella fossa è già un paesaggio. Ho qualche reticenza rispetto all’utilizzo di narrazioni legate al verbo “salvare” o legate alla parola “bellezza”, per me c’è già tutto ed è tutto qui. Non c’è niente da salvare, niente da migliorare. Sono più analitica in questo senso.

Mi viene in mente un’immagine da Psicomagia di Jodorowsky, nello specifico il ragazzo con istinti suicidari che si ritrova sepolto vivo in una fossa, la testa in una campana di vetro dalla quale osserva banchettare una schiera di avvoltoi…
Lo conosco bene quel libro. Non ci avevo mai pensato, però effettivamente c’è una segreta connessione; il discorso è legato proprio a questo “buio largo”, che è spaventoso ma che è anche tutto quello che c’è, viene così, solo quando sei davvero quell’animale nella fossa.
Sviluppare giudizi non m’interessa particolarmente; è qualcosa che semplicemente non accade. Sono attraversata da una serie di immagini, che non vengono da lontano, ma sempre dal reale, spesso dall’autobiografico. Queste immagini poi sono tradotte, tradite, universalizzate, diventano un fatto collettivo. In questo senso sempre politico.
Sono attraversata da una serie di immagini, che non vengono da lontano, ma sempre dal reale, dall’autobiografico.
A cosa ti riferisci quando dici che c’è anche un aspetto politico?
Per me la poesia è una pratica politica a tutti gli effetti: una pratica di assoluta resistenza. Il fatto che sia una pratica di lentezza è un fattore assolutamente antieconomico, anticapitalistico. È una pratica problematica per questo sistema – e infatti, non ne viene assorbita – perché prevede un tempo dilatato, un tempo lento e dedicato a un sentire che non è produttivo.
Il fare creativo come fare originario e contrapposto al fare funzionale.
Esatto, è un punto scottante della forza politica della poesia. La possibilità infine di essere performata, di diventare quindi un momento collettivo, un momento esperienziale condiviso. La poesia performata può creare un momento di fortissima intimità tra le persone ed è per questo che sto cercando, per l’ultimo progetto, degli spazi che possano offrire questo momento di raccoglimento, di presa in carico, di attenzione e di messa in campo di una serie di geografie affettive personali. Negli ultimi anni ho performato veramente dappertutto con la poesia, dal circolo Arci al club, dallo spazio occupato alla galleria d’arte; l’ho fatto e lo rifarei perché comunque mi ha formata, dandomi la possibilità di confrontarmi con un pubblico sempre nuovo, sempre diverso. Adesso però ho preso le misure, so che quello che facciamo accadere è un’esperienza sonora. Non è visiva, non è narrativa: è un’esperienza del suono, quindi sto cercando posti che permettano un’emersione puntuale, che permettano la spazializzazione del suono e della voce, una chiamata a raccolta.
La poesia performata può creare un momento di fortissima intimità tra le persone ed è per questo che sto cercando, per l’ultimo progetto, degli spazi che possano offrire questo momento di raccoglimento.
La poesia va ascoltata. Tornando per un attimo ai contenuti politici, a un certo punto dici: da sempre mi consumano/ i maschi. Io li ho portati in grembo/ – nutriti con il mio sangue/ sono stata terra umida e feconda/ e anche tronco, roccia o ala/ a sostenere il volo/ mi restano attaccati dappertutto/ i maschi: accudisco già/ figli maschi che non ho. […] Quello che mi tocca/ è farmi casa per te/ ma se a nascermi fra le gambe/ è una bambina,/ un’altra bambina come me?
Questo è proprio uno di quei testi che custodisce in sé un posizionamento. In realtà intreccia svariati nodi, su più livelli. C’è sempre una denuncia, ma celata, le parole sono piccole chiavi d’accesso.
Ungaretti direbbe: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto”.
Questa poesia è stata scritta un paio di anni fa ed è il frutto di un’immagine che mi ha tormentata a lungo: parlando con Biancamaria Frabotta di “viandanza”, affiorò l’immagine delle bambine che non possono neanche sognare un ritorno a casa. Ho iniziato a pensare al fatto che i bio-uomini possono sviluppare, nello slancio sessuale, l’idea di tornare all’utero. Le bambine invece, intese qui come tutti i corpi culturalmente sessualizzati e genderizzati subalternamente come corpi femminili, sono investit+ dall’idea di farsi casa per gli altri. E in questo senso sono corpi viandanti, corpi migranti, apolidi, senza fissa dimora. Il finale è un po’ ironico, assomiglia a una minaccia, in realtà è un po’ un augurio; se generiamo parentele tra noi bambine, soggettività non-binary, queer, lesbiche, corporeità non conformi, se a nascermi fra le gambe è una bambina insomma, un’altra bambina come me? Cosa potrà succedere? Il finale aperto è un auspicio alla sorellanza transfemminista.
Richiami legami familiari e più in generale amorosi, ma è inevitabile non avvertire una certa pesantezza da un lato, e paura, dall’altro, connessa a queste relazioni. È nel silenzio, quasi, più che nella parola, che tali legami trovano uno spazio protetto.
La dimensione del silenzio è molto forte. Nei miei versi il silenzio è sempre stato presente, come un presagio. La costruzione del non detto, del venuto meno, è messa in atto attraverso giochi di sospensione e frasi che si arrestano sempre troppo presto, attraverso l’evidente assenza di punteggiatura. Ci sono molti modi di studiare la possibilità di stare in silenzio e di fare del silenzio un’occasione. I versi ci danno la possibilità di cedere il passo, di svuotare, di sottrarre, che non è mai una negazione ma è sempre un dire qualcosa. Cerco di lavorare molto su questo inciampo, su questo sibilo.
Nei miei versi il silenzio è sempre stato presente, come un presagio. La costruzione del non detto, del venuto meno, è messa in atto attraverso giochi di sospensione e frasi che si arrestano sempre troppo presto.
Del resto, è proprio nell’interrompersi del verso, della parola, nel non detto, che si crea la poesia.
Anche sonoramente questo fenomeno ci offre la possibilità di esplorare lo svuotamento come qualcosa che esiste, che c’è. Il vuoto non è mai vuoto, ha sempre una sua fisicità. Attraverso il suono c’è davvero modo di approfondire questo aspetto e la poesia per me è molto più vicina ai rumori che alla musica. Mi capita a volte di registrare degli ambienti sonori che lì per lì sembrano insignificanti. A volte sembra di registrare il vuoto, lo zero, e invece tra i fili di quel vuoto si muovono un sacco di possibilità e relazioni spaziali. Fa paura, noi non siamo veramente abituati a stare in relazione con il vuoto e con il niente, siamo abituati a fare costantemente qualcosa, a riempire. Attraverso il teatro ho potuto studiare alcune pratiche fisiche che mi spingono a riflettere moltissimo sul non fare nulla, stare lì e basta, con quello che c’è, e riscontro in tantissime persone una totale difficoltà anche solo nel non gesticolare, non sbattere gli occhi, non grattarsi, non avere una serie di nevrosi che sono tutti questi slanci a riempire. A riempire, perché è terribilmente spaventoso essere lì con quello che c’è. Per questo c’è una corsa disperata al riempimento, è per il boicottaggio di questa corsa che la poesia è necessaria, lavorare con i rumori che ci sono e con lo svuotamento è necessario. La poesia è sovversiva, sempre.
(Intervista di Chiara De Cillis)
L’animale nella fossa è una recording-session di GAIA GINEVRA GIORGI, poetessa, attrice e performer. Il testo, di cui vi presentiamo la registrazione dal vivo, è stato performato in occasione dell’Art Site Fest, nel catalogo di Artissima 2019. Il brano è stato anche selezionato per la piattaforma di ascolto di Helicotrema Recorded Audio Festival. L’autrice ha pubblicato le raccolte Sisifo (Alter Ego, 2016) e Manovre Segrete (Interno Poesia, 2017), che di recente è stato tradotto in spagnolo da María Martínez Bautista per La Bella Varsovia.