Da Artaud a Basaglia | Intervista a Pierpaolo Capovilla

Pierpaolo Capovilla (1968) musicista e vocalist de Il teatro degli orrori, One dimensional man e Buñuel, ha di recente portato in una serie di festival, appuntamenti, incontri dedicati alle metamorfosi della psichiatria la sua versione di Succubi e supplizi di Antonin Artaud, che con le sue «interiezioni» è stato uno dei testimoni più lucidi ed estremi dell’esperienza manicomiale alla Pinel.  Fa un certo effetto riascoltare questo testo nel 2018, anno in cui ricorre il 40° anniversario della legge 180 che prese il nome di «legge Basaglia», una delle poche rivoluzioni che ci sono state in Italia, almeno in senso copernicano. Ma cosa vuol dire essere impegnati e confrontarsi col disagio mentale, nel panorama artistico di oggi? Lo abbiamo chiesto a Capovilla, che ci ha rilasciato un’intervista ai Magazzini Oz di Torino, in occasione del primo incontro dedicato a Franco Basaglia organizzato dal Circolo dei Lettori.

Come ti sei avvicinato alla psichiatria, e perché?

PC: In realtà alla psichiatria come disciplina scientifica mi ci sono avvicinato grazie ai libri di Piero Cipriano (autore della cosiddetta «trilogia della riluttanza» edita da elèuthera, N.d.R.), in un momento della mia vita in cui una persona a me molto vicina stava facendo uso di psicofarmaci. Leggo sul Manifesto la recensione de Il manicomio chimico e volendo capirci qualcosa in più, lo prendo e comincio a scoprire i concetti di «iatrogenesi» legati al disturbo psichico e a comprendere le parole d’ordine della psichiatria. Leggo altri libri, uno dei quali, La società dei devianti, contiene una mia e-mail, perché io e Piero nel frattempo siamo diventati amici. Lui mi ha fatto conoscere il forum di salute mentale e tutti gli altri basagliani che ci sono in Italia, Peppe Dell’Acqua e Giovanni Del Giudice, che sono stati protagonisti di quella rivoluzione che è stata l’abolizione dei manicomi nel nostro Paese. Poi naturalmente, una volta che assumi certi strumenti di conoscenza, questi ti aiutano a comprendere meglio la realtà che hai intorno. Quando oggi incontro Giorgio, che è un signore di sessantacinque anni che vive a Venezia, la mia città, sempre sedato, con la faccia all’ingiù, un uomo completamente spento, lo avvicino e capisco cosa può essergli accaduto. È finito nelle maglie della psichiatria «manicomializzante» che c’è ancora in Italia, perché i manicomi sono stati aboliti ma l’ideologia manicomiale no. Quello è un fatto culturale che va combattuto nei luoghi in cui quella stessa pratica medica viene esercitata, cioè negli SPDC degli ospedali italiani, dove si pratica ancora una psichiatria manicomiale. Che cosa è successo a Giorgio? Anche se sedato, lui comprendeva perfettamente la situazione di cui era caduto vittima. Succedono queste cose: si parte con un TSO, poi ne arriva un altro, poi un altro ancora, fino ad arrivare a una carriera di «malato mentale». Giorgio malato non lo era, è stato reso malato in questo processo iatrogeno per cui lo psicofarmaco e l’atteggiamento stesso della prassi psichiatrica fanno del paziente un corpo in cui iniettare sostanze, senza preoccuparsi minimamente del suo vissuto.

Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – 29 agosto 1980)

Nell’ultimo libro di Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, hai riportato la tua testimonianza sul disagio mentale che colpisce molte persone. Secondo te come mai l’arte e la musica contemporanea non riescono più a raccontarlo e in che modo si possono affrontare questi argomenti senza cedere alla retorica degli oppressi?

PC: Mi piace ciò che suggerisci, «la retorica degli oppressi». Come si fa a non caderci? Non cadendoci. Quando scrivi una canzone, all’inizio scrivi delle cose che possono risultare retoriche, poi studi un po’ e applicandoti come ci si applica alla soluzione di una complicata equazione, cerchi la soluzione migliore dal punto di vista narrativo. Quando nel ‘78 fu abolito il manicomio con la 180, la legge non arrivò dal cielo: Basaglia riuscì a costruire un gruppo di lavoro all’interno della psichiatria italiana che, in qualche modo, diventò egemone, per cui il legislatore accolse la richiesta di quella minoranza che voleva abolire il manicomio perché non serviva, non era terapeutico. Ma questo fu possibile perché una società civile spingeva in quella direzione. Gli anni ’70 furono anni terribili ma pieni di creatività. All’epoca le cose erano molto diverse: Finardi, Dalla, Dario Fo, la PFM, Demetrio Stratos e gli Area andavano nei manicomi a suonare, per distruggere i manicomi ancora prima che fossero aboliti. Perché il manicomio lo distruggi quando gli apri le porte. Quello che va distrutto del manicomio ancora oggi è l’esclusione del sofferente psichico, pensare ai bisogni che può avere in questo momento storico: un lavoro, una casa, qualcuno con cui parlare e con cui relazionarsi.

Gli anni ’70 furono anni terribili ma pieni di creatività. Finardi, Dalla, Dario Fo, la PFM, Demetrio Stratos e gli Area andavano nei manicomi a suonare. Perché il manicomio lo distruggi quando gli apri le porte.

In qualche modo ti senti vicino alla poetica di Antonin Artaud interpretando le sue «interiezioni»?

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Antonin Artaud (4 settembre 1896 – 4 marzo 1948)

PC: Artaud lo conobbi all’università, quando lessi Il teatro e il suo doppio. Lì scoprii il principio del teatro della crudeltà, che segna il passaggio dal teatro di prosa al teatro di scena, per cui bisogna liberare la parola dalla prigionia del piombo, dell’inchiostro che la incatena alla pagina scritta del libro per riportarla sul palcoscenico. Ciò che avviene sul palcoscenico non è finto, è «più reale del reale» e chi assiste allo spettacolo, lo diceva lo stesso Artaud, se ne deve andare sconvolto. Deve aver avuto non l’impressione, ma la certezza di aver vissuto un paio d’ore della propria vita «autentiche». Era una bella sfida. Succubi e supplizi l’ho conosciuto di recente, quando Cipriano, Del Giudice e Dell’Acqua portavano avanti questa bella battaglia contro la contenzione meccanica negli ospedali, ed io cercavo un reading che potesse raccontare al meglio che cos’è il manicomio. Avrei potuto cimentarmi con Alda Merini o con Fontana, ma penso che Succubi e supplizi fosse il testo ideale per raccontarlo.

 

La pratica dell’elettrochoc, nella sua violenza, che aveva come scopo di silenziare il soggetto psichiatrico, secondo te può essere paragonato a forme di sedazione massiva?

PC: Il trattamento elettroconvulsionante esiste ancora e da alcuni, per fortuna pochi, viene utilizzato. È una pratica desueta e illogica, medievale. La pratica psichiatrica della sedazione persegue lo stesso obiettivo, una «momentanea amnesia». Ovviamente in Italia, avendo dei residui di basaglianesimo, sono pochissimi a praticare l’elettrochoc, ma in Inghilterra e in altri paesi purtroppo è ancora molto in voga. Nel nostro Paese ci sono circa trecentoventitré SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura – e di questi soltanto ventitré, hanno perfino creato un circolo tra loro, sono non restraint, cioè non chiudono le porte e non legano. Negli altri si chiudono le porte e si legano le persone. Non sempre, ma molto spesso. Questa è una pratica che è lesiva dei diritti umani e del paziente, che va interrotta una volta per tutte. Seguendo il mio amico Piero nei suoi incontri, ho compreso che in realtà, un po’ come il Trattamento Sanitario Obbligatorio, legare può essere necessario, ma dev’essere una pratica assolutamente eccezionale, istruita da precise informazioni mediche nel maggiore rispetto dei diritti umani del paziente. Questa cosa non avviene, ed è grave. Ecco che la pratica manicomiale torna nella prassi psichiatrica, non nell’edificio. Nel momento in cui chiudo la porta, ho già il manicomio. Nel momento in cui ti lego e ti sedo, ancora di più. C’è gente che è morta, come Franco Mastrogiovanni, e nessuno va in galera per quel reato perché la legge consente queste pratiche, mentre durante quell’istruzione si paragonava il TSO al sequestro di persona. Allora è arrivato il momento in cui o il TSO non lo facciamo più o, se lo facciamo, cerchiamo di rispettare i diritti della persona.

Nel nostro Paese ci sono circa trecentoventitré SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura – e di questi soltanto ventitré sono non restraint, cioè non chiudono le porte e non legano.

Tu sei tra i musicisti più intelligenti, disponibili al dialogo e anche – passami il termine – engagé nel panorama italiano. Ti definiresti un intellettuale «riluttante», qualora questo termine venga usato in senso spregiativo?

PC: Perché «riluttante»? Il mio amico Piero Cipriano fa lo psichiatra e si definisce riluttante per differenziarsi dall’anti-psichiatria. Io non mi sento riluttante nei confronti del ruolo dell’intellettuale nella società. Io non sono un intellettuale, sono il cantante di un gruppo rock. Poi ho il privilegio di essere ascoltato da tante persone, e questo mi spinge ad una cittadinanza attiva. Vuol dire essere intellettuale? Okay. Allora il problema è un altro. Vuoi vedere che è la cittadinanza attiva ad essere chiamata «intellettuale» o «radical chic» o «snob», per essere disprezzata quando non si fa gli affari propri?

Piero Cipriano, psichiatra, autore della «trilogia della riluttanza»

Molti psichiatri sono soliti constatare che una forma per restituire ai malati una dignità sia quella artistica; un testo, un dipinto, una canzone che sia integrazione storica tra un passato nascosto dietro i muri dei manicomi e ciò che avviene oggi. Sei d’accordo?

PC: Ricordo una discussione che ebbi in una chat di facebook con una psicoterapeuta stranamente aggressiva, tutto nacque da un’intervista nella quale affermavo che la musica è più terapeutica degli psicofarmaci, la quale mi pose questa domanda: «La letteratura sui matti la facciamo noi professionisti o la fanno i malati?». Io risposi: tutti e due. Sembra che il matto, secondo questa giovane psicoterapeuta, sia qualcuno che debba prendere solo gli psicofarmaci e non rompere i coglioni, e questo è l’atteggiamento che ha molta psichiatria nei confronti dei malati. Che cos’è lo schizoidismo? L’assenza di empatia. Quando un medico non prova empatia verso un paziente può provarne disprezzo. E questo è stranamente frequente nella pratica psichiatrica, nel nostro Paese come nel resto del mondo. Ecco perché l’abolizione dei manicomi non basta. Se noi società civile ci schieriamo con gli psichiatri democratici, con i basagliani che oggi sono più combattivi che mai, perché amano i loro pazienti, amano il loro lavoro anche quando sono «riluttanti» come Piero, saremo capaci di reintrodurre l’umanità necessaria all’interno della psichiatria, perché questa torni ad essere prassi comune giornaliera. Il manicomio deve ancora sparire. Se non diamo una mano a questa gente, come avveniva nel ’78 quando i musicisti entravano nei manicomi per distruggerli prima ancora che arrivasse la giurisprudenza a renderlo possibile, non ci riusciremo mai. Dobbiamo esserci. Spero di non essere una mosca bianca, ma so che tanti artisti la pensano come me e che siamo dalla stessa parte.

 Davide Galipò, Filippo Braga
Neutopia – Rivista del Possibile

Un pensiero su “Da Artaud a Basaglia | Intervista a Pierpaolo Capovilla

  1. Grazie di questa intervista, mi trovo d’accordo, da teatrante, commerciante, e via di seguito … bipolare tipo 1, qual sono.
    Ben felice di farmi aiutare dal mio Carbolithium.
    L’unione fa la forza. Grazie ancora!
    Memento Audere Semper. 🤸🎼💞

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