L’Anoressico | Giovanni Schiavone

Un’ambizione nasceva sempre in quegli istanti. L’orgasmo squarciava il cosmo, trascinava macigni di frustrazione e rabbia e tensione e vergogna, s’infrangeva sulla scogliera come un’onda anomala, polverizzandola, e urlava, lo implorava di esprimere ciò che il suo cuore traduceva in accelerazioni cardiache e la sua mente in deliri d’onnipotenza.
Quegli istanti durante i quali egli fuggiva dolorosamente da se stesso perché si accorgeva di essere un velleitario, istanti intrisi di vano riscatto e della consapevolezza che non c’era modo più bello per dire una realtà tanto tremenda: velleità, un suono che addolciva la rassegnazione (ecco cosa amava: lasciarsi cullare da scialbe considerazioni sulle parole). Ecco a cosa ambiva: a esprimere il suo abisso e la sua grandezza affinché da una simile espressione scaturisse la gloria.

Ecco a cosa ambiva: esprimere il suo abisso e la sua grandezza perché da una simile espressione potesse scaturire la gloria.

 Subito, però, la forza della velleità svaniva e lasciava il posto alla certezza del fallimento. Egli diveniva lo spettatore disperato delle proprie vibrazioni. Mai si sarebbe dissolto in nuvola per volare sulle ali della più dolce rondinella, poi posarsi ai piedi del Principe Felice e sfiorarne le labbra in punto di morte; sempre sarebbe stato in punto di morte, ma vivo, vivo e cosciente, verme neanche benedetto da un buddha compassionevole, scarto del mondo, si annullava innanzi alla miseria del suo animo storpio e molle.
Si contorceva su un giaciglio di vetri, fissava le stelle che brillavano ma forse già non esistevano più e nel suo spirito spappolato s’insinuava il dubbio che anche lui brillasse senza essere più. Ecco perché nessuno capiva la sua condizione: erano tutti abbagliati dall’antico bagliore, accecati fino a credere vivo quel corpo che in verità era in punto di morte. Ed era un inno alla vita ogni parola pronunciata per conquistare la sua stima, un inno alla vita che si scagliava su un ammasso di materia inerte. Tutti lo ferivano. Egli non riusciva a sopportare i loro amorevoli tentativi di condividere parole e destini. E non era la sua volontà a opporre il rifiuto, a farlo era una forza oscura e misteriosa che gli dimorava dentro.
Era un anoressico. Un lacerante dolore gli proveniva da falsi dogmi che egli stesso aveva creato e che lo avevano imprigionato: credeva che se anche avesse assaggiato i cibi che gli dèi splendenti gli donavano, non sarebbe stato capace di goderne. Sopravviveva con un’acquiescenza oramai sfinita, e ciò lo turbava enormemente giacché temeva di cedere e di non poter più rimandare la scelta: soccombere o esistere? Ecco ciò da cui rifuggiva: l’esistenza. Ma era un inno alla vita il tutto che lo circondava, perché la forza intima di ogni cosa è una forza vitale, che in lui, a dire il vero, non era ancora stata vinta.
Soffocava. Per anni, aveva pregato. Poi, d’un tratto, aveva innalzato lo stendardo dei senzadio, e nell’ateismo aveva trovato il modo più frustrante per manifestare la grandezza del proprio ingegno: assai facile gli riusciva dimostrare l’estinzione del sacro. A dire il vero sapeva bene che ogni istante della sua esistenza era stato amato dagli dèi, poiché egli era venuto al mondo per illuminare i suoi simili.
Allora aveva avvertito l’urgenza d’indagare se almeno uno, attorno a lui, sentisse nel suo stesso modo. Aveva chiesto senza paura ma i suoni, per via dell’abitudine alla timidezza, erano fuoriusciti lacerati. Perciò era stato ignorato. E la goffaggine e la fierezza, la bellezza e la meschinità si erano fuse insieme.
E ora aborriva la vita attraverso eiaculazioni senza scopo, perso nella visione di sinuose sirene che si levavano il suo seme dalla bocca. Gli occhi del mondo questo scorgevano: la masturbazione dell’anoressico. Egli fissava senza espressione il proprio volto nello specchio, poi notava l’asimmetria dei triangoli della taglia e un lieve cedimento dei muscoli addominali. E lo sguardo gli cadeva sul sesso, stretto dalle mani le cui vene si agitavano come un cervo morente.

***

L’anoressico camminava su un ponte sospeso sopra la voragine[1]. Solo alcuni tratti erano illuminati; dov’era l’ombra, vi erano vuoti, e lui era costretto a procedere con cautela. La luce proveniva da sopra, da dietro i vetri d’un’imponente costruzione ispirata alle fronde di un albero. L’anoressico però non poteva saperlo, poiché soffriva di vertigini e non riusciva a guardare in alto. Era condannato a fissare l’abisso. Stava lì in quello stato di cui noi percepiamo un’eco confusa, e che nella nostra miserevole disponibilità di mezzi chiameremo gelo.
Né egli aveva coscienza di che cosa significasse camminare su quel ponte. Sentiva su di sé una consapevolezza dai contorni sfatti e male abbozzati, e pesante, cupa più cupa d’una notte eterna che i popoli dei tempi mitici solevano scongiurare. E sognava, rapito da delirio allucinatorio, una creatura che mediante il proprio corpo muto esibiva la verità ma poi si dissolveva senza riuscire a esprimerla col verbo – o col rumore, che è uguale. Allora capiva di non poter agire a causa della mancanza d’informazioni. L’uomo scelto per illuminare i suoi simili non conosceva se stesso.
Veramente sapeva da tempo che i governi avevano formato un’Unione con lo scopo di castrare la genia degli eroi, come pure si era accorto delle spie che lo tenevano sotto controllo, ne registravano i movimenti e li riferivano agli Inquisitori. Ecco che i pervertimenti ai quali la sua mente aveva ceduto – e quanto grande sarebbe stata la punizione per questo! – lo spingevano talvolta a credere che l’anoressia lo avesse almeno salvato dai brutali interventi dell’Unione. Egli era un eroe sconfitto, che anzi non aveva nemmeno tentato l’uscita dal mondo, e la sua vita era la prova di tale mutilazione. Ancora non rappresentava un vero pericolo, ancora poteva sperare di rimanere ignoto. Però una parte di lui, nascosta in regioni tanto segrete che spesso smettevano d’appartenergli, ben conosceva il senso profondo del destino. C’era, tra così gonfi oceani di tenebra, almeno un grano di principio individuale nel cui seno si alimentasse la profezia, ribollisse il risorgimento.
«Prima o poi», egli pensava, «io sarò compiuto. Il senso della mia venuta quaggiù non può essere stato dimenticato».
Ma gli oceani non avevano confini, e tremendo era il diluvio, né è dato sapere se esistessero arche e civilizzatori.
L’anoressico era destinato ad attendere invano.


[1]  Poiché per scoprire il Vero è necessario sorgere dagli abissi, esiste una visione più vicina alla verità, della quale è possibile ottenere qualche squarcio servendosi di occhi inferi. Siamo ancora di fronte a un simbolo, ma è la stessa energia cosmica ad attuarsi simbolicamente mediante ordini ricevuti da dio. Le divinità esistono per fare rispettare tali ordini: esse quindi sono funzioni dell’Eterno. Esse, inoltre, ci forzano a narrare.
Opera di Francis Bacon

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